Rai: la grande ipocrisia

Non varrebbe la pena parlare di Rai, perché l’argomento appassiona solo gli addetti ai lavori: giornali e giornalisti, appaltatori e appaltati, seconde e terze file della politica, salotti in disarmo. Ma le reazioni che leggo sono talmente dissennate ed estreme da provocare anche ad un placido nonno in vacanza un vero moto di stizza.

Ma mi spiegate tutto questo scandalo per il nuovo consiglio di amministrazione Rai? Mi dite dove sta la differenza – faccio i primi nomi che mi vengono in mente – tra Messa e De Laurentiis, Freccero e Balassone, Diaconale e Emiliani? Mi ricordate quali erano all’atto della nomina le competenze televisive dei mille che hanno affollato i Cda Rai nel corso degli anni (cito sempre a memoria: gli editori Donzelli, Sellerio e Olivares, i filosofi Beppe Vacca e Tullio Gregory, lo storico del Medioevo Cardini e il costruttore Marchini, lo scrittore Siciliano e Liliana Cavani, il pubblicitario Alberto Contri) e quali sono state le benemerenze acquisite, le cose concretamente fatte da tutti questi signori nel corso dei loro incarichi?

Vedrete che grosso modo funzioneranno meglio questi sette più o meno sconosciuti. Intanto prenderanno davvero pochi soldini (80mila euro lordi: nessun professionista di livello potrebbe lavorare seriamente per così pochi denari) o non li prenderanno affatto, se sono pensionati. In secondo luogo conteranno assai poco, avranno molto meno potere, posto che l’abbiano avuto i loro predecessori, al di là delle stanze spaziose che occupavano al piano nobile di viale Mazzini. Alcuni di loro non andranno al di là di qualche intervista: il vecchio Freccero ha già cominciato, facendola grottescamente fuori dal vaso. Altri magari faranno il loro dovere, inventandosi qualche proposta o facendo dignitose marchette per coloro che si stanno strappando i capelli in queste ore.

Ah certo, dimenticavo. Nessuno dei sette è stato nominato dalla società civile. Allora faccio appello anche io ai famosi due neuroni, se vi restano. Collegateli, e ricordatemi che cosa hanno combinato nell’ultimo Cda i signori Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi, scelti dal noto Pierluigi Bersani, immacolato leader della fu ditta. Dopo la fatica, quando avrete completato l’elenco delle opere dei sunnominati, andate a rinfrescarvi la testa a mare. Potreste tornare a riva avendo magicamente compreso che una bella, esplicita lottizzazione dei partiti è moralmente più sana dell’indignazione ipocrita di cui vi riempite la bocca.

La comunicazione senza fuoco del Pd

“Come prepariamo le nostre presenze in Tv?”, si è chiesto l’altra sera nella direzione Pd Matteo Renzi, mettendo al centro il tema della comunicazione, e impostandolo – finalmente – nella maniera giusta, senza lamentele o atteggiamenti difensivi, ma – al contrario – ribadendone la centralità.

Avrebbe potuto – chiunque altro l’avrebbe fatto – piagnucolare per l’evidente asimmetria informativa dei talk televisivi, per la concentrazione di attacchi rivolti esclusivamente a lui da ogni piattaforma mediatica, per i conduttori il cui posto è garantito non dagli ascolti ma solo dalla quota di astio nei suoi confronti, per la bile che trasuda da intellettuali e commentatori che attendono una chiamata che non arriva, per i giornalisti del partito preso, per la monomaniacalità dei comici.

Invece – per la prima volta, direi – un leader della sinistra italiana prende di petto il tema senza scuse. Dicendo in sostanza: siamo noi il centro del sistema, è normale che si sia sotto tiro, la comunicazione è questa, prendere o lasciare. Quello che non va è come la facciamo noi.

Ok. E qui viene il bello. Perché dalla banale constatazione possono facilmente scaturire molte risposte sbagliate. Già vedo dirigersi verso il Nazareno schiere di guru, coach e trainer, dottori dello spin e santoni del public speaking. Che magari servono pure, perché qualche regoletta semplice semplice la devono pur conoscere i polli di batteria che affollano i talk. Ma in realtà – come si diceva una volta – il problema è un altro.

Il problema della comunicazione del Pd è politico, e come tale va affrontato. Al netto di una preparazione tecnica e di merito che spesso manca (studiateveli i problemi, prendete un po’ di appunti prima di andare in trasmissione, provate a sintetizzare frasi efficaci, lavorate sulle formule retoriche che possono mettere in imbarazzo gli avversari, etc…), il punto è che i dirigenti del Pd STANNO SEMPRE UN PASSO INDIETRO AL LORO LEADER (e scusate le maiuscole, ma qui ci vogliono).

Renzi attacca sui magistrati oppure sugli insegnanti, sulla PA o sui sindacati? Il giorno dopo, immancabilmente, ti ritrovi al partito un dirigente che spiega, attenua, smorza. E in Tv un parlamentare che giustifica, interpreta, difende. In questo modo depotenziando il messaggio, dando armi agli avversari (e avallando l’idea che Renzi sia un mezzo pazzo, un illuso o un sempliciotto).

Perché è questo l’atteggiamento dominante dei dirigenti Pd? Per mille motivi: per inesperienza o impreparazione (cui si può mettere riparo con l’applicazione e lo studio), per quieto vivere, semplice codardia o opportunismo (mali che è più complicato estirpare).

Questo schema va rovesciato, decisamente. Oggi Renzi guida una nazione e va ai summit con chi governa il mondo. Di fronte ai tanti, seri problemi che ha di fronte, deve necessariamente mediare, trovare dei punti di equilibrio, avanzare per compromessi. Ora è uno statista, questa è la parola giusta. Della rivoluzione renzista deve essere sempre più il simbolo, ma il suo sguardo deve essere più ampio, aperto e sereno.

Non può più essere lui a giocare alla guerriglia con leghisti, grillini e asociali. Mentre al suo fianco devono crescere dei gladiatori, non degli abatini. Il partito deve essere presidiato dalla punta più avanzata del renzismo, e in Tv devono andarci i guardiani della rivoluzione. Quelli che possono anche sbagliare una battuta, una cifra (e anche un gerundio, se capita), ma credono in quello che dicono. Pasdaran che non abbiano paura del ridicolo (sì, finanche del ridicolo, quando è necessario) ma vadano a difendere nelle arene le ragioni profonde del renzismo. Combattenti che non pensino (solo) alla propria carriera, ma la inseriscano dentro una causa più generale e (di nuovo) affascinante per tutti.

Insomma, per dirla in inglese, è un problema di palle.

#MettiallaBoschi

Matteo,

la polvere delle sciocchezze postvoto si è diradata, dopo l’ennesima, grottesca carovana di sondaggi, exit polls, proiezioni, maratone elettorali, commenti e dichiarazioni farlocche. I dati reali dicono che continua l’erosione dell’elettorato del M5S, che il centrodestra non ha leadership ma resta competitivo, e che il tuo Pd è sempre maggioritario. Avessi fatto fare subito due conti (quelli che ha fatto ieri Vassallo),  invece di mandare in Tv degli educati morticini, questa verità poteva venire fuori prima.

Detto questo, le elezioni hanno ribadito una cosa nota da tempo:  il problema più serio che hai è la costruzione di una nuova, diffusa classe dirigente. Hai cominciato la tua galoppata con un gruppetto di amici, ora ti ritrovi a comandare partito e paese: non potrai resistere a lungo se non allarghi il giro, se non promuovi, se non deleghi. Te lo dicono in tanti, lo sai; è la critica più serrata, ma anche sincera, che ti viene rivolta. Tu non ti fidi, e ti capisco pure: perché credi che nessuno sia sveglio e intelligente come te, e perché un politico non si fida per principio di vita.

Capisco anche che il principio elementare e di buon senso che ti guida è il seguente: se devo rivoltare il paese come un calzino, bisogna procedere per cerchi concentrici, stabilendo delle priorità. Blindare il cerchio più ristretto e poi procedere per gradi, senza sguarnire il ristretto quartier generale. Ma così, per arrivare in periferia, impiegherai una vita. E l’anno prossimo votano Milano, Napoli, Bologna, Torino.

Dicono le gazzette che ora hai intenzione di dare uno sguardo al partito. Leggo elenchi di morticini che potrebbero sostituire il buon Guerini. Lascia perdere. Se i nomi sono quelli tieniti quello che c’è.

Prova invece a fare un ragionamento diverso. Sulla struttura-partito tu hai due strade davanti. La prima è buttare via il vecchio arnese, utilizzarlo solo per prendere per il culo la minoranza in direzione e nel frattempo costruire altro: strutture parallele sul territorio, comitati elettorali. Ma temo che alla fine – quando si tratterà di decidere – ti troverai sempre di fronte qualche statuto del cazzo, norme da rispettare, procedure bizantine. E finirai impantanto dentro la vecchia struttura e le solite mediazioni.

Oppure hai un’altra strada. Quella di mettere il partito nelle mani della persona più capace della tua squadra. Una tosta e anche mediatrice, autorevole ma paziente, tenace e combattiva: la MEB. Con compiti di gestione fino al 2017, e poi eletta alla segreteria nel congresso, con un patto che vi porterà a correre nel 2018. Tu da premier, lei a capo di un partito che avrà avuto tempo per rifare dalle fondamenta. (Il prosieguo del racconto è che – come hai detto – tu nel 2023 vai a goderti la vita, e la MEB la facciamo premier…).

Matteo, sono solo i titoli di coda

E’ chiaro che stai ancora schiumando rabbia per i giornali di stamattina. Ma respira profondo, fermati a riflettere e non rispondere loro come sarebbe giusto e come vorresti. Hai fatto di tutto per imporre un altro finale alla puntata, hai fatto arrivare Matteo 3 con la Playstation, hai messo 5000 km e una mimetica tra te e il voto, ma la storia era già scritta. Queste elezioni dovevano essere la tua “battuta d’arresto”. Perché così vogliono le leggi dello storytelling.

Pensaci. Finora hai bruciato tutte le tappe con una velocità impensata. Ti sei preso in un amen partito e governo, hai messo al lavoro come mai un Parlamento che ti è nemico, progetti riforme, fai e disfai alleanze, irriti corporazioni (a partire dalla più sporca, quella dei giornalisti). Da un anno e mezzo passi da un trionfo all’altro e la rabbia dei tuoi nemici è montata proporzionalmente al loro crescente numero. Volevi che il racconto non avesse mai un punto di rottura, che fosse una continua, trionfale passeggiata? Ma allora sarebbe una soap, non un drama. Traumi, punti di squilibro, incidenti scatenanti sono il sale di ogni storia che si rispetti. Come l’episodio di domenica, che può diventare la leva – te la dico così, perché ti so esperto della materia – per un bel turning point (a patto che tu sappia superare o quantomeno gestire il tuo fatal flaw).

D’altronde un po’ te lo sei chiamato, l’episodio. La sceneggiatura del voto regionale era nelle mani dei tuoi avversari dall’inizio (ogni elezione di midterm lo è, nel racconto politico contemporaneo). I tuoi interessi altrove, il partito non riformato, i territori non coperti, le primarie random. I nemici che si assiepano sui bordi del canyon: corporazioni varie, sindacati e castine, media di ogni ordine e grado. E tu che passi nella gola con il tuo esercito di smandrappati: 3 su sette non sono tuoi, 2 sono bravi capitani di ventura, tu ti prendi in collo le 2 più scarse.

T’è andata anche bene, e lo sai. Potevi perdere Umbria e Campania e diventava un’altra storia, non un episodio di questa. Ma il punto è che – pure se avessi preso la Liguria – stamattina ti avrebbero detto comunque che Emiliano fa partita a sé, che dipendi da De Luca che dipende da De Mita, che passare in un anno dal 37% al 16% in Veneto non è fine, e così via. La puntata così doveva andare, come testimoniano stamattina i titoli di coda: la Repubblica che ti bacchetta perché non hai tenuto la sinistra unita, e il Corriere che ti intima di badare in futuro ai corpi intermedi.

Due ottimi spunti – se ci pensi – per costruire il prossimo racconto facendo esattamente il contrario di quello che ti chiedono. Fallo, e il pubblico tornerà a divertirsi e ad appassionarsi.

Come è andata

Per serietà è bene dirlo in premessa: le mie previsioni erano quasi tutte giuste. Salvo che ho fatto come Higuain ieri: ho fallito il rigore (ho detto 6-1 ed è finita 5-2). Quindi ho sbagliato. E ora veniamo alle bufale degli altri, che sono assai peggiori, perché vengono dette dopo, fottendosene dei dati.

La bufala dell’astensionismo. Si temeva l’Emilia 2014 (37%), è finita più o meno come in Baviera nel 2011 o in tante elezioni locali in giro per il mondo. In Italia la gente per le elezioni regionali vota sempre meno (2005: 72%; 2010: 64%; 2015: 54%), perché non riconosce le regioni come istituzioni vicine e produttive (ci costano 190 miliardi all’anno: che cosa ci danno in cambio?). Nello stesso giorno, ieri, a Matera ha votato per le comunali il 74%. Le persone normali votano quando lo ritengono utile. Non rompete i coglioni con la lagna dell’astensionismo.

La bufala del M5S – Fino a qualche ora fa i media – il cui unico interesse è destabilizzare e soffiare sul fuoco – hanno continuato a dire: “M5S primo partito in tre regioni”. Poi hanno corretto, senza sprezzo del ridicolo: “M5S mai così bene nelle amministrative”. Nella realtà i grillini sono secondi in Liguria, Marche e Puglia, terzi in Toscana, Umbria e Campania, quarti in Veneto. Sono un partito di media forza (dal 10% in Veneto al 22% in Liguria) con un tendenza al ribasso, dopo il boom del 2013. E’ normale, perché sono esplosi come forza antisistema. Fino a quando non decideranno di fare alleanze, proporre soluzioni di governo, etc… il progressivo calo continuerà.

La bufala Salvini – Come era largamente prevedibile, è già cominciato il tormentone del Matteo 2 come alternativa a Matteo 1. Che la Lega prendesse molti voti, nel vuoto politico del centrodestra, era più che scontato: resta il problema di come li utilizzerà. Se vuole sfidare Renzi per il governo, Salvini deve buttare via le felpe, costruirsi un vocabolario civile e un credibile programma di governo. Se lo fa, perde una parte di voti antisistema, che probabilmente (lo vedremo nei prossimi giorni) gli sono venuti finanche da frange grilline. Matteo 2 ha lo stesso problema del comico: diventare grande, cominciare a fare politica.

Possiamo passare alle questioni serie, che mi sembrano due:

1)  Le spinte antisistema restano forti. Se – con gioco un po’ ardito – si sommano Lega e M5S, gli “antisistema” sono il 27% in Veneto, il 42% in Liguria, il 35% in Toscana, il 27% in Umbria, il 34% nelle Marche, il 18% in Campania e in Puglia. Ma, in un voto difficile e respingente, il sistema ha mostrato di essere in gardo di riassorbire progressivamente queste spinte. Soprattutto grazie alla seconda gamba del bipolarismo italiano, un centrodestra senza leader che mantiene un suo forte insediamento. Se viene fuori uno capace di mettere gentilmente da parte Berlusconi, il sistema può riassestarsi. Cosa che servirà a tutti, innanzitutto a Renzi.

2) Renzi è solo. Quando non scende in campo, il Pd si presenta per quello che è, un partito stanco, vecchio, inadeguato e litigioso: il voto veneto (dal 37% del 2014 al 16% di ieri) ne è la testimonianza secca. Il Pd non è strutturato per essere un partito del 40%: non ha regole interne, vita democratica, non seleziona classe dirigente. Soprattutto, il Pd guarda e pensa sempre e soltanto dentro l’orizzonte politico, culturale e simbolico della sinistra, mentre Renzi ha stravinto quando ha guardato al resto d’Italia. Se ricomincerà la solfa del dibattito interno con i Bersani e i D’Attorre, per il giovanotto la vedo male. Per vaccinarsi contro questo rischio, deve tornare al Nazareno o a qualcosa che gli somigli.

In conclusione, il dato a mio avviso dominante. Comunque non facciamoci prendere la mano dal politicismo. In queste elezioni, come avviene sempre di più e dappertutto, hanno vinto o perso le persone. Ha vinto –  malgrado l'”impresentabilità”, la Bindi e tutto il resto – il brutale carisma di De Luca contrapposto all’incomprensibile understatement di Caldoro. Un personaggio interessante e anomalo come Ricci stava per fare il colpaccio in Umbria, contro la scialba continuità della Marini. Ha vinto il solido buongoverno di Zaia contro la debole Moretti e il deludentissimo Tosi. Lo strabordante populista Emiliano ha trionfato sulle divisioni del centrodestra. La sinistra ha perso in Liguria non per Pastorino (non dire o avallare questa sciocchezza, Matteo), ma perché la Paita è una figura sbiadita ed è apparsa come la continuazione del sistema di potere burlandiano. Gli elettori sono infinitamente saggi, guardate. Fanno sempre la cosa giusta.

Un video nella storia

Dedicato ai miei sette fans. Il video postato da quel simpatico pirata di Franco Bechis è di martedì scorso (con coda di altra natura mercoledì mattina). Prima di andare a dormire, con t-shirt sdrucita e occhio appannato, provo Periscope, appena sbarcato su Android, e mi dedico a Rosi Bindi, sostenendo che la campagna elettorale l’avrebbe chiusa lei, e in maniera eclatante.

Così è andata. Possibile che lo avessi immaginato solo io? Matteuccio, non è che nella circostanza sei stato un po’ leggerino?

Claudio Velardi contro Rosy Bindi: ‘Fa campagna elettorale con la lista degli impresentabili’ – Franco Bechis – Libero Quotidiano.

Solo per Fatto personale

In un pezzo di stamattina – l’unico stranamente non firmato di tutto il giornale –  il Fatto sostiene che sarei lo spin doctor di Vincenzo De Luca in Campania. Non è vero. Non lavoro per De Luca. E non solo: da anni non faccio campagne elettorali (dal 2011) per i politici. Per un motivo semplice. Pagano poco, tardi e non ti stanno a sentire (peraltro giustamente: se sono politici capaci, i veri comunicatori sono loro, altro che gli spin doctor del cazzo).

Non so chi abbia fatto circolare la notiziola, anche se l’articolo fornisce delle piste da seguire (segnatamente una).  Conclusione: lasciami in pace, giovanotto, fatti propaganda con qualcun altro. E voi, colleghi del Fatto, i pezzi cercate di firmarli sempre: è un problema di deontologia, direi.

PS. In ogni caso mi sono arrabbiato solo per l’orribile foto sfondo-rosso-camicia-blu-cravatta-bianca. Ordinerò al mio spin doctor di toglierla dalla circolazione.Schermata 2015-05-28 alle 08.57.33

Mi correggo, domenica lo scontro sarà cittadini vs magistratura

Stamattina è stato necessario leggere (più volte) il bel pezzo di Brambilla sulla Stampa per orientarsi nell’inestricabile labirinto della legge Severino e della sua (impossibile) applicazione. Mentre è bastato scorrere le cronache comiche della Commissione Antimafia per capire perché un’associazione segreta (la mafia) vince su una politica cialtrona che vuole imitare i giudici occupandosi – signora Bindi – di cose che non le competono (e non sa neppure tenersi un cece in bocca). Poi, se in giornata vi è capitato di prendere un taxi, certamente avrete pensato con affetto al giudice di Milano che ci ha tolto la libertà di scegliere come andare in giro nelle nostre città. Infine, se il tassista smoccolante contro Uber e l’umanità vi ha lasciato un attimo di tempo per andare su Google e digitare ‘TAR’, avrete potuto compulsare lo smisurato elenco di temi di natura strettamente politico-amministrativa nelle quali i giudici mettono quotidianamente bocca: paralizzando, ritardando, ostacolando, impedendo. E se, nel vostro peregrinare tra una sentenza e un ricorso, non vi siete convinti a sufficienza dell’intreccio profondissimo e malato tra politica e magistratura, vi ricordo io la sentenza della Corte Costituzionale di qualche giorno fa sulle pensioni, la cui applicazione integrale ci avrebbe messo grosso modo nelle condizioni della Grecia.

Ora, io passo per essere uno che ce l’ha con la magistratura. In realtà non è così. Io sostengo semplicemente che dal ’92 c’è un rapporto asimmetrico e squilibrato tra i poteri dello Stato: politica debolissima, magistratura e media che dominano la scena e fanno l’agenda pubblica, dettandone tempi e modalità. E questo non sta bene e non mi piace. Perché – in sintesi – non fa altro che destabilizzare il sistema e chiunque ne sia temporaneamente alla guida.

Parecchi milioni di italiani andranno a votare domenica prossima, avendo nelle orecchie questo insopportabile frastuono di fondo del conflitto tra la magistratura e la politica. Se andassi a votare (non mi tocca, sono cittadino strombolano), personalmente starei dalla parte della politica. La divisione dei poteri l’abbiamo studiata alle elementari e ci piace. Ma, quando tra i poteri c’è un evidente squilibrio, bisogna tornare ai fondamentali, e ripristinare il primato della democrazia. Cioè del popolo che sceglie.

Domenica sarà destra vs sinistra, as usual.

Potrà finire 6-1, 5-2 o 4-3, ma ancora una volta a decidere sarà – come dicono plasticamente Liguria e Campania – lo scontro tra sinistra e destra, Pd vs Forza Italia, De Luca vs Caldoro, Paita vs Toti. Altro che grillini, centristi e leghisti. A loro andrà l’aglietto delle percentuali, roba buona tuttalpiù per scaldare i cuori ai militanti.

Con tutto l’inarrestabile declino del suo leader, la destra in Italia c’è, e ci mancherebbe. Ha insediamento sociale e – grazie a Berlusconi – ha conquistato nel ventennio anche una parvenza di “ideologia”, quantomeno di coscienza di sé. Dopo le regionali avrà bisogno di tempo per rimettersi in piedi. Per un po’ dovrà sorbirsi il furbetto delle felpe, che lunedì – senza vincere niente – griderà al trionfo facendo il pieno di Tv. Ma poi, esaurita la fuffa postelettorale, si tornerà al vero, urgente ordine del giorno: accomodare – gentilmente ma fermamente – Berlusconi fuori dalla porta, e trovare una leadership in grado – in tempi medio-lunghi – di contrastare il fiorentino.

Mentre quello che da domenica non ci sarà più è il mitico tripolarismo, passato per l’Italia come un acquazzone di stagione nel 2013, e già bello che finito – almeno questo è il mio parere – a causa dell’incapacità del M5S di costruire strategie di alleanze, di selezionare personale all’altezza, insomma di fare politica. Si fosse chiamato Iglesias, Grillo avrebbe fatto dal febbraio del 2013 quello che Podemos sta facendo oggi, un minuto dopo la sua avanzata nelle municipali spagnole, mettendosi pragmaticamente in cerca di soluzioni di governo. Non fossero – lui e Casaleggio – due squinternati autocrati, avrebbero costruito sul territorio delle credibili, possibili alternative in vista dell’appuntamento del 31 maggio.

Non sarà così. A contrastare una sinistra che non si rinnova sul territorio (anche) perché non stimolata dagli avversari, sarà sempre l’acciaccatissima destra italiana. Una gara al momento non esaltante, di cui prenderemo il buono: l’esaurimento della bolla del comico genovese.

Come andrà a finire

Spingo la ragione oltre l’ostacolo dei luoghi comuni e mi esercito in previsioni elettorali, pronto al fact-checking di domenica prossima, quando saranno gli elettori a decidere. Butto nel cestino i sondaggi, falliti ormai così tante volte da poterli degradare definitivamente a beceri strumenti di marketing. E tralascio il punto a croce di commentatori ed editorialisti, che dovrebbero – loro sì – appassionarci con approfondimenti e previsioni, e invece sono solo bravi nel gossip di scarto. Vado schematicamente:

1) Non penso che andrà a votare tanta poca gente, anche se così recita il mantra dominante. Sette regioni configurano un’elezione di mid-term. Il crollo dei votanti del 2014 in Emilia e Calabria non si ripeterà, anche se la caduta di profilo politico-istituzionale delle regioni non si è arrestata. Tenendo presente che già nel 2010 (in tredici regioni) si erano persi 8 punti rispetto al 2005 (dal 72% al 64%), si può immaginare che se ne perdano altri, nelle sette al voto domenica (nel 2010 su percentuali varianti dal 60% di Liguria e Toscana al 66% del Veneto).  Ma scommetto su una partecipazione globale tra il 55% e il 60%.

2) Il secondo luogo comune vuole che ci sarà un nuovo boom dei candidati grillini. Signori, ce l’avevate già predetto l’anno scorso, in vista delle europee. Ce lo dite sempre, dal 2013. Ma non calcolate che nel 2013 Grillo fu sottostimato, come avviene sempre per un movimento nella sua fase di ascesa. Da allora la storia del M5S è cambiata: per gli italiani è una forza politica come le altre. Domenica prossima pagherà la sua inconcludenza politica generale, la mancanza di proposte e di leadership sui territori. Non sfiorerà neppure lontanamente il 20% di cui è accreditato.

3) Salvini prenderà molti voti che non serviranno a nulla, se non a dilaniare ulteriormente il centrodestra. Dal giorno dopo qualcuno riterrà necessario fargli fare un giro di leadership e non troverà opposizioni, visto che di campioni da quella parte non si vede l’ombra. Salvini leader sarà l’ultimo – obbligato – lascito di Berlusconi. Un bel regalo per il fiorentino che continua segretamente ad amare.

4) L’effetto Renzi ci sarà, anche se non avrà, ovviamente, le dimensioni del 2014. Gli atti di governo hanno creato tensioni, la sinistra bru bru è divisa su tutto tranne che sulla guerra al giovanotto, i candidati certo non sprizzano novità da ogni poro. Ciononostante la politicizzazione dell’ultima settimana spingerà una piccola fetta del popolo renziano del 2014 ad un altro atto d’amore. Quanto basterà per vincere le partite a rischio.

5) Finirà 6 a 1, con molte differenze interne. In Puglia, nelle Marche e in Toscana non ci sarà storia. L’Umbria lancerà l’ultimo campanello d’allarme per il centrosinistra. In Campania De Luca vincerà perché dall’altra parte il suo avversario ha rinunciato alla campagna elettorale. La sfida ligure sarà decisa dalla chiamata alle armi di quello che resta dell’antica sinistra tutta d’un pezzo.

6) Dal giorno dopo niente cambierà. Gli avversari interni di Renzi continueranno la loro inacidita guerriglia. Il segretario del Pd (sempre lui) farà finta di discutere di forma-partito, nuove soluzioni organizzative, etc… per mettere ordine nei territori. Il vecchio Parlamento di Berlusconi, Bersani e Grillo continuerà a sembrare un Vietnam, anche se ormai funziona come un orologio svizzero. Ha approvato più leggi negli ultimi 15 mesi che nei precedenti 15 anni.

La mia personale indagine dei fondi di caffé finisce qui. Dovessi prenderci, non mi dite bravo. Cerco solo di ragionare. Dovesse andare diversamente, avrò aggiunto qualche cazzata in più al mio palmarès. Niente di grave.

Ancora sulla rivoluzione dell’ageing

Su Fb un amico – ne taccio il nome per evitargli linciaggi – commenta con entusiasmo il mio post di ieri, concludendo che Renzi avrebbe bisogno di gente come me al governo. Io ringrazio per l’endorsement, ma colgo l’occasione per dire che il mio ‘folle’ ragionamento va in tutt’altra direzione.

La (mia) rivoluzione dell’ageing prevede che – in conseguenza del clamoroso allungamento delle aspettative di vita – cambino radicalmente i percorsi di formazione, di crescita, di carriera. Alla base si tratta di trasformare il rapporto con il potere, che nella vecchia società è sempre stato inseparabilmente collegato all’esperienza e alla conoscenza. In sintesi, le competenze/informazioni acquisite nella formazione da giovani servono per conquistare quote di potere e posizioni di gestione da rafforzare e conservare fino all’età della pensione. O, nel caso dei poteri pubblici, vita natural durante. (L’esempio estremo riguarda l’elezione a cariche primarie, che prevede spessissimo una soglia d’età d’ingresso, e mai nessun limite d’età).

La società nuova rovescia tendenzialmente questo schema. Intanto perché il potere si va sempre più ramificando. Il potere-feticcio chiuso nelle stanze dei bottoni, non esiste e non esisterà più. Ognuno di noi organizza fette crescenti della propria esistenza prescindendo dalle istituzioni. Conoscenze e informazioni sono sempre più socializzate, aumenta a dismisura il potere diffuso delle reti: di interesse, di relazioni, di autogoverno. Mentre i tradizionali compiti di gestione degli esecutivi si esauriscono: gli stessi governi (e le leadership) ritrovano una effettiva funzione solo progettando soluzioni inedite (e parziali, limitate) per il futuro.

Ma perché questo futuro deve essere deciso (diciamo influenzato…) dalle vecchie generazioni e non da coloro che ne dovranno godere i frutti (o pagare le conseguenze)? La mancanza di esperienza impedisce ad un giovane di misurarsi con il governo della cosa pubblica? Qui – mi rendo conto – c’è forse il vero discrimine. Generalmente si è sempre ritenuto che l’esperienza sia necessaria per compiere le scelte migliori nell’interesse generale. Non è più così. Come dimostrano gli ultimi decenni, di fronte a cambiamenti più che epocali, le generazioni più anziane si sono chiuse a protezione delle proprie conquiste (anche perché – e si torna al punto – vogliono godere degli effetti dell’allungamento della loro vita…). Mentre ai giovani è stato destinato un improduttivo – e irresponsabile – prolungamento dell’adolescenza.

Per questo – per quanto possa apparire paradossale – la rivoluzione dell’ageing non è cosa diversa dalla rottamazione. La società nuova deve essere gestita da giovani – ambiziosi, inesperti, eterodossi, iconoclasti –  chiamati a sperimentare soluzioni per quello che resta da governare della società della disintermediazione: compito faticoso (e non gratificante, peraltro). Gli anziani devono vivere l’ultima, sempre più lunga coda della loro esistenza lasciando il potere, trasferendo le conoscenze – più o meno valide, questo si vedrà – accumulate, creando mercati e consumando. (Molto più divertente, detto da un sessantenne).

Il paese morto che vuole pensionarsi

In questi giorni si torna prepotentemente a parlare di pensioni, dopo l’ultimo golpe consumato nei confronti della politica dal potere più castale che c’è, quello della Corte Costituzionale. Al golpe il governo ha messo riparo con prontezza e misura. Ma il tema pensioni è riesploso in generale, perché nulla in Italia appassiona di più. Non è solo per il caos che da sempre regna nella materia, e per quello che il caos genera, in termini di invidia sociale, guerre tra categorie, e rincorse a privilegi, eccezioni, deroghe, stralci, norme ad hoc e bonus. Il problema è più di fondo, ha radici lontane.

Molti decenni fa l’Italietta cattocomunista pensò bene di redistribuire rapidamente gli effimeri effetti del dopoboom, avendo il solo obiettivo di evitare tensioni sociali e politiche. Fu così che il salario e la pensione divennero due “variabili indipendenti”, l’uno dall’andamento dei mercati, l’altra dai conti dello Stato. Per ricondurre il salario alla sua realtà fattuale – la retribuzione del lavoro commisurata ai diversi fattori produttivi – ci volle la nobile battaglia condotta da Bettino Craxi contro la scala mobile. Per superare il devastante meccanismo retributivo su cui fu costruito il sistema pensionistico italiano ci sono voluti decenni di piccole, infinitesime correzioni e riformette. Con il risultato che ora che siamo – tendenzialmente – arrivati al contributivo per tutti, ci ritroviamo sommersi da un crescente debito pubblico, e – soprattutto – in un mondo del tutto nuovo. In cui il problema non è più se si va in pensione a 62 o 65 anni, ma come si fa fronte al cambio radicale della piramide demografica, come si riconfigurano le diverse stagioni (formazione, lavoro, riposo) di esseri umani la cui aspettativa di vita è clamorosamente cresciuta.

Ieri il buon Renzi ha detto, testualmente: “Se una donna a 61, 62 o 63 anni vuole andare in pensione due o tre anni prima, rinunciando a 20-30-40 euro, per godersi il nipote anziché dover pagare 600 euro la baby sitter, bisognerà trovare le modalità per cui, sempre con attenzione ai denari, si possa permettere a questa nonna di andarsi a godere il nipotino. Le normative del passato sono intervenute in modo troppo rigido”. Ora, questo può starci (sempre a condizione che la nonna si sia pagata, nel corso della vita, la pensione che prenderà). Ma il vero problema, giovanotto, è un altro.

Il vero problema di fondo è che è venuto il momento di compiere una rivoluzione sociale, politica e culturale (e anche lessicale). Noi concepiamo ancora la pensione come un obiettivo, un traguardo, “il coronamento di una vita di lavoro”, come si dice enfaticamente. Dovremmo invece considerarla come una condanna. Perché – una volta raggiunto il cosiddetto “traguardo” – camperemo tutti ancora mediamente 25-30 anni, e in buona salute: lo dicono le statistiche e le scienze. E che cazzo faremo per il resto della vita? Ci faremo mantenere dallo Stato (che non può più farlo)? Andremo ai giardinetti anche se il cervello ci funziona? E senza vergognarci di farlo?

Anche solo a fare un’indagine empirica tra i miei coetanei, quelli più imbolsiti e rincoglioniti li trovo proprio tra i “pensionati”: festeggiano l’ultimo giorno di lavoro, si regalano qualche viaggetto, vanno in palestra, si inventano hobbies, fanno i nonni. E dopo un po’ te li ritrovi che non sanno che cosa farsene della vita: intristiti, impigriti, impegnati solo a curarsi per sopravvivere, senza sapere bene perché.

Bisogna fare la rivoluzione dell’ageing, altro che pensioni. Inventare lavoro per gli ultrasessantenni, non regalare loro la prospettiva del babysitting. Creare mercati nuovi. Ricollocare gli anziani, facendoli lavorare con nuove mansioni. Chiedere loro di trasferire ai più giovani le competenze accumulate. Farli diventare formatori permanenti. (Sapendo anche che il cosiddetto patto generazionale è una sciocchezza. I paesi dove funziona il mercato dell’ageing sono quelli con maggiore tasso di occupazione giovanile).

Per questo bisogna combattere il concetto stesso di pensionamento, non agitarlo come un vessillo, magari per prendere qualche voto in più.  Un paese che vuole solo pensionarsi è un paese senza speranze, per dirla in una parola. Se Renzi vuole ridare una speranza all’Italia, non può pensionarla.

La comunicazione della destra

Ieri ho rimesso giacca e cravatta (a cinque anni dal matrimonio di mia figlia): a Palazzo Giustiniani, come a Palazzo Madama, si mantiene questa usanza barbara. Con il cappio alla gola sono andato a discutere di cose che mi interessano (social networks, politica e comunicazione) in un convegno vivace e interessante, promosso dalla fondazione Italia Protagonista.

Perché ne parlo? Perché l’intervento di Renato Brunetta (pure persona intelligente, colta e ironica) mi ha chiarito la natura strutturale, e purtroppo non recuperabile a breve, della crisi della destra italiana. (Dico ‘purtroppo’ perché penso da tempo che il suo sfascio sia il nostro principale problema politico: il sistema uscirà da una condizione di precarietà e fibrillazione permanente solo quando il centro destra avrà una nuova configurazione e una nuova leadership).

Che cosa ha detto ieri Brunetta? Ci ha parlato del ‘Mattinale’, un micidiale pastone che Forza Italia propina ogni giorno a centinaia di parlamentari, diffonde sul web e rilancia con decine di tweet: un ‘AntiRenzi’ quotidiano, fatto di molte cifre, ponderosi dossier e – a volte – di azzeccati slogans. Brunetta – in sostanza – ha confessato candidamente che fa il ‘Mattinale’ perché vuole far fuori Renzi, pur sapendo che “lo strumento parla solo ai nostri” (testuale). Eccola squadernata, l’attuale impotenza della destra italiana. Non parla a nessuno, al di fuori dei suoi recinti. E più fa mattinali, più si ghettizza.

Ho avuto gioco facile, in risposta a Brunetta (che comunque se ne era andato), a dire che in comunicazione chi insegue perde sempre. Lo sa bene Berlusconi, che ha sempre imposto la sua agenda, soprattutto nei momenti di massima difficoltà (vedi campagne 2006 e 2013). Oggi lo sa bene anche Salvini, che leader di una destra di governo non diventerà mai, ma raccatterà un po’ di voti facendosi insultare e dettando i titoli, (quasi) mai in risposta a Renzi. La destra tornerà competitiva quando reimporrà una sua agenda.

(Allargando il campo, ho detto anche un’altra cosa, più difficile da comprendere in un convegno di comunicatori della politica. In generale la politica non deve inseguire la comunicazione. Non potrà mai raggiungerla, perché la comunicazione è immensamente più veloce e ha sempre il coltello dalla parte del manico: ha l’ultima parola. La politica può contrastare la comunicazione solo diventando essa stessa comunicazione. Quindi disintermediando la comunicazione, come ha fatto Berlusconi negli anni d’oro e come fa oggi Renzi. Amen.)

I bignamini disperati

Stamattina gli editoriali di Corriere e Repubblica sono due scolastici suntini di storia patria, nostalgici e accidiosi, barbosi come i due barbuti autori.

L’Italia by Scalfari è in ritardo di tre secoli sugli altri stati, senza borghesia, piena di plebaglia da conquistare con la demagogia, gattopardesca, guicciardiniana e non machiavelliana, cavourriana e non mazziniana, corrotta fino al midollo.

Trasformista, paludosa, incapace di pensare se stessa (ma che vor dì?), priva di profondità e passione, familista e mafiosa, con i talk show che prendono il posto dei libri, è l’Italia di Galli della Loggia. Come quella dello Statuto, senza partiti e alternative di governo. Senza speranze.

Ma che cosa volete, tutti e due? Perché non la smettete con queste prediche? Perché non ci fate campare? Perché non provate a scendere dal vostro ego e dire qualcosa di sensato, di concreto, di positivo? Ce l’avete uno straccio di idea? E come sono ridotti i due principali quotidiani di questo paese se ci devono affliggere così in una domenica di maggio?

Chi lavora per Salvini (2)

Non faremmo blog se non fossimo un po’ narcisi, e l”io l’avevo detto” è un classico del genere. Vi riposto un pezzo di una ventina di giorni fa. Era chiaro dai primi passi della campagna elettorale che Salvini voleva diventarne protagonista in piazza, prendendosi insulti e pomodori in qualunque angolo d’Italia. Una strategia semplice ed efficace, suggellata dal parallelo onanismo mediatico dei brontosauri della sinistra. Nel post avrei potuto aggiungere quello che già sapevo sarebbe successo (narcisismo al cubo…) sulla stampa. Invece di scoprire il gioco di Salvini e dei suoi complici di centri sociali e dintorni e di invitare l’uno e gli altri a comportarsi con un minimo di serietà, si sarebbero lanciati alti lai sul sacrosanto diritto alla parola di Salvini, ci si sarebbe chiesti perché gli intellettuali stanno zitti, e che in fondo questo accade perché tutti pensano che sia Salvini a sbagliare, che le sue tesi sono eccessive etc… insomma tutta la paccottiglia di banalità paternalistiche e pelose che esattamente in queste ore l’informazione nazionale ci sta propinando. E mo’ vedete che vi dico. Magari non succede perché il ragazzo (Salvini) è furbo ma non lo vedo con le stimmate dell’eroe. Però… dai pomodori siamo passati al sasso schivato, e alla fine della campagna elettorale mancano ancora due settimane… 

Basta vederlo mentre si fa fotografare sorridente con in mano il pomodoro che gli hanno appena lanciato, o mentre sale trionfante su un predellino e riprende i contestatori di turno. Salvini sta costruendo la sua campagna elettorale sulle proteste e gli incidenti. Organizza e – innanzitutto – annuncia visite a campi rom (in vista della chiusura cruenta che auspica), fa comizi nei paraggi dei centri sociali di ogni città per facilitare le loro mobilitazioni, ieri a Porto Recanati è andato letteralmente in cerca di un hotel multietnico, giusto per farsi respingere. Sempre accompagnato da solerti funzionari di polizia, e naturalmente a favore di telecamere e taccuini. Realizzato l’obiettivo della contestazione, conclude in gloria ogni iniziativa dichiarando solennemente: “Io volevo solo dialogare, sono loro gli intolleranti, tornerò”. Visibilità totale garantita. E pure voti. Chi non sopportava Salvini continua a non sopportarlo. Ma i supporters si gasano, gli elettori della zona grigia si interessano al soggetto, e alle prossime regionali lo voteranno, in assenza – a destra – di opzioni alternative. Fin qui tutto normale, tutto chiaro per chiunque ne capisca un po’ (tranquilli, non parlo dei media lobotomizzati, che lo inseguono come cagnolini scodinzolanti). Bravo Salvini.

Il punto che mi incuriosisce è un altro. Ma come è possibile che tutti – dico tutti – facciano il suo gioco? Passi per i centri sociali, che in fondo hanno lo stesso problema di visibilità di Salvini e vi si specchiano, condividendone la confusa cultura di base, conflittuale e rancorosa. Passi pure per gli immigrati,  forse gli unici a credere ancora che nella grande piazza Italia non si combatte per un’inquadratura ma per obiettivi sociali e civili. Ma sconcerta che la banale operazione mediatica non sia stata compresa da sindacati e Pd, che ieri nelle Marche – leggiamo – hanno manifestato compatti contro Salvini. Contribuendo così ad accrescerne popolarità e consenso. Che stupidi.

(Conclusione un po’ nostalgica, per una volta consentitemela: all’epoca, se l’ultimo dei funzionari di partito fosse caduto in un tranello del genere, sarebbe stato destituito il giorno dopo).

Metodo Travaglio (e metodo Romeo)

Una paginata intera del Fatto dedicata ad Alfredo Romeo. Un’intervista sdraiata, con domande telefonate e risposte chiare e puntute. Il povero Marco Travaglio, direttore del giornale, ha dovuto mettere in pagina l’intervista e firmarla – immaginiamo – per evitare di risarcire Romeo con bel pacco di soldi, dopo le nefandezze e le falsità dette negli anni su di lui (e non solo, anche sul sottoscritto che lo difendeva, conoscendolo come una persona per bene).

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Un bell’esempio di come bisognerebbe sempre far fronte al metodo Travaglio, fatto di diffamazioni, falsità, teoremi. Con il metodo Romeo. Dici sciocchezze? Paga. Oppure scrivi sotto dettatura. Come uno scribacchino qualunque.

Ancora sulla buona scuola

Di seguito un altro bel post sulla scuola, che un insegnante ha pubblicato sul suo blog (http://robertobalzano.blogspot.it) in risposta alla lettera di Renzi ai professori. Lo trovo ben scritto, equilibrato e civile.

Gentilissimo Matteo,
con ogni evidenza lei e il suo governo avete determinato un grado e una qualità di attenzione sul mondo della scuola che è il dato politicamente e socialmente più rilevante di questa fase. Di ciò non si può che ringraziarla, e augurarsi che questo processo di riforma e di innovazione possa finalmente cominciare a strutturarsi. Processo che, provando a designare per l’istituzione scolastica una forma e un ruolo adeguato al presente e al futuro, che è così carico di incertezze e quindi di sfide, non poteva pensarsi esente da ostilità (esterne) e da contraddizioni (interne). Ma questo è il rischio di qualsiasi azione riformatrice, e credo che le sia in tutti i suoi aspetti piuttosto ben presente.
La ringrazio per la sua lettera. Condivido in buona parte l’impostazione metodologica del suo discorso e del disegno di legge attualmente in discussione. Ma lo valuto, appunto, l’inizio di una fase nuova che è ancora di là dal venire. Una riforma del ruolo della dirigenza scolastica e dell’accesso a essa, il ridisegno più organico e democratico dei cicli di istruzione, una discussione più approfondita, concettualmente più attenta, del rapporto tra mercato del lavoro e formazione scolastica, saranno i passi successivi, quelli che spero ci impegneranno nei prossimi anni. La tensione verso una giusta misura tra la necessità del merito e della valutazione e la garanzia dell’autonomia, sia per i docenti che per gli alunni, è l’orizzonte idealmente indifferibile che la modernità consegna alle istituzioni educative e formative. Dal suo discorso, dallo spirito della proposta legislativa, emerge questa consapevolezza. Per questo mi sento di dirle che sono dalla sua parte e che la appoggio con convinzione. Non so allo stato attuale ancora immaginare che scuola prenderà forma dopo l’approvazione della legge, né se e come sarà il mio posto in essa. Ma è una sfida. Mi piace. E la accetto.
Io appartengo alla sua stessa generazione (sono del 1979). Da insegnante e da coetaneo le dico che saremo in grado di essere partecipi del cambiamento, di non subirlo, di creare le condizioni per una società più libera e giusta, se ci faremo carico della volontà di trasmettere quello spirito autenticamente riformatore e costruttivo, per il quale si ha coscienza che le conquiste di oggi non sono altro se non la base per ciò di cui ci sarà bisogno domani. I nostri figli e fratelli più piccoli, nella sconfinata tenerezza della loro spaesata gioventù, in fondo non chiedono che esempi di operosa onestà intellettuale, attraverso cui essere aiutati a orientarsi sin da subito responsabilmente verso il loro percorso di vita in maniera meno blandamente elusiva, rispetto a quel che finora si è fatto, della dimensione conflittuale del divenire delle società. Anche rispetto a questo il modello di scuola tracciato nel disegno di legge del governo mi sembra meglio rispondente e servibile.
L’attenzione e la cura e capacità ricompositiva attraverso cui si determina il giudizio sulla “bontà” dell’intervento legislativo, amministrativo, e anche scolastico, nascono dalla messa a fuoco della consistenza e della qualità delle forze che agiscono nella società e nelle istituzioni, e dall’assunzione dell’onere della scelta e del cambiamento. Da questo punto di vista lei continua a essere senza dubbio un esempio, e come tale spesso la propongo ai miei studenti. Non dimentichi però di sottolineare ogni volta che quello che si sta iniziando ora è un processo di riforma il cui senso liberatorio finirebbe con l’essere presto svilito e smarrito senza la previsione del suo approfondimento, della sua espansione. La cultura e l’educazione che servono a trovare il proprio posto all’interno di una società in cambiamento, devono essere dinamiche e in costante evoluzione al pari delle istituzioni in cui vengono praticate e trasmesse. È questo ciò cui siamo tutti chiamati a non sottrarci. Almeno quelli che, come lei, come me, hanno deciso ormai da qualche tempo che era giunto il momento di provare in proprio un nuovo modello di società, di politica e di responsabilità individuale e convivenza civile.
La saluto con simpatia, augurandole buon lavoro.
Roberto Balzano